Appunti Di Viaggio
street e il gattopardo
Ovvero, la fotografia Gattopardesca
“…se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi…”Per dare una spiegazione a questo genere di fotografia, la street (dall’ingl. street che vuol dire strada) occorre scomodare niente popo’ di meno che il compianto Giuseppe Tomasi da Lampedusa, quando “scrisse” sulle labbra del suo bellissimo personaggio Tancredi quella celeberrima frase, che poi è divenuto il manifesto di opere riesumate, cose riviste e corrette, cambiamenti definiti epocali che non cambiano niente o qualsiasi altra cosa vogliate, ma che abbia questo tipo di sapore. Si potrebbe pensare anche al famosissimo proverbio dove il lupo perde il pelo ma non il vizio, ma non è la stessa cosa.
Ma che c’è da reinventarsi? Anche perché in fotografia, più o meno è stato fatto tutto e qualcosa ci si deve pur inventare. Ok, questa è ovviamente una frase provocatoria, perché aver esplorato tutto non significa che sarebbe opportuno smettere di fare le fotografie con la scusa che tanto non ha più senso! Sarebbe come dire che, dal momento in cui in pittura i ritratti sono già stati fatti, allora i pittori non li devono più fare. Bene, ma ricordiamoci che questi benedetti ritratti li facevano già gli antichi egizi e sicuramente anche prima. Se l’umanità avesse usato questo approccio all’arte, tutta quella immane quantità di opere d’arte, semplicemente al giorno d’oggi non ci sarebbe. Quindi, niente Gioconda, nessuna ragazza con l’orecchino di perla, Federico da Montefeltro non sarebbe così popolare, nessun ragazzo sarebbe stato morso da qualche ramarro e via dicendo… Sicuramente meno pensieri per mantenere in vita tutte quelle croste, ma sai che miseria sarebbe così la vita?
Quindi che fotografia è la street? Per spiegarla ai più vecchi dico queste poche parole: la street photo, di sicuro avrà anche una sua definizione… e ammetto di non saperla, ma di fatto è la pratica fotografica che si faceva durante le gite dei fotoclub, quando si andava in una città o in un paese e si facevano le fotografie alle persone e alle cose. Certamente non fanno parte del contesto le fotografie di poetici scorci, dell’imponente monumento, il panorama… Magari, se ben contestualizzato e se il tutto acquista un preciso significato, va bene anche il bel monumento e lo scorcio del borgo caratteristico, ma non sono mai i soggetti principali. Spicca sempre la figura umana o per lo meno una sinopia di essa. In una delle sue ultime interviste, il grande H.C. Bresson, parlando di panorama, disse che la figura umana è il panorama più bello o interessante… Purtroppo non ricordo la definizione precisa e la rivista non la ritrovo, ma faceva sottintendere che l’uomo in un modo o nell’altro deve figurare nella fotografia, se non altro come presenza remota.
Ai tempi del pellicolitico anteriore, non si faceva street, ma si facevano le fotografie e basta. Più precisamente si dovrebbe dire che, tra le altre cose, si faceva street anche se non lo sapevamo e adesso nei nostri archivi ci ritroviamo decine di diapositive street vere e proprie! Normalmente si provava a documentare i modi di fare e di essere di un posto e era naturale ritrovarsi a fotografare soggetti in contesti street veri e propri e si faceva perché sapevamo che quel tipo di fotografie erano belle e basta. E poi vorrei parlare delle migliori fotografie che si facevano: quelle per finire il rullino! Il rullino aveva trentasei fotogrammi e costavano, per cui si usavano con parsimonia e attenzione, tanto che si riusciva a fare almeno sei o sette foto buone su un solo rullino: una percentuale che adesso è impensabile per le nuove generazioni. Le prime erano sempre molto curare e curata era anche la scelta del soggetto: mai casuale, mai ardito. Solo che a forza di stare attenti, avanzava sempre qualche fotogramma, dopo tutto per un pomeriggio un rullino è poco e due sono troppi. Ma non era cosa intelligente sprecare tutta quella pellicola e si doveva finire comunque, per poter portare al service di sviluppo tutto il rullino insieme alle altre. Quei sette o otto fotogrammi erano i migliori, i soggetti più audaci, le esposizioni più esasperate, le inquadrature più esplosive. Allora si usciva in strada, o spesso lo si finiva tornando indietro fino alla macchina e si facevano le foto più “disinibite” che si potessero pensare. Si cambiava la pelle e si diventava, secondo me, veri fotografi. Alla fine non si facevano foto strane. C’è da dire che qualche volta si passava il limite della decenza, ma spesso i risultati erano interessanti, accattivanti e provocatori.
Adesso quando si esce si fanno duecento scatti all’ora, e ballare intorno al limite non costa niente. Per cui occorre dare un nome a quel genere di fotografia e di certo non può essere un nome latino, ma deve avere un suono anglofono. Poi, magari non ci siamo neppure scomodati noi italiani a dargli un nome e quindi, a lavoro fatto perché smontare tutto l’impalcato? Non sia mai! E quindi che street sia!
A questo punto, detta così, pare poco più di un gioco. Ma personalmente non lo reputo un gioco, ma una cosa piuttosto seria perché di fatto tutto questo risulta un immane lavoro del quale tutti i fotografi ne sono ignari interpreti, testimoni, ma soprattutto protagonisti! Stiamo di fatto testimoniando la vita e i modi di fare del tempo che passa, del luogo in cui viviamo quel presente che sarà un futuro passato. Gli hard discs dei fotografi di oggi, sono miniere d’oro per gli storici del futuro. Il fatto che adesso si sia dato un nome a un certo genere di fotografia, è assolutamente secondario. Il vantaggio per il fotografo che si identifica artisticamente in questo genere fotografico, stà nel fatto che può rinforzare la propria faccia di bronzo, così necessaria per certe pratiche: può trovare il giusto stimolo per raschiare dal fondo del proprio barile trovare il coraggio sufficiente a fare una fotografia nel muso a uno sconosciuto. Che dire? Vi sembra poco? Se pensate veramente che questo non conti niente, vuol dire che non avete mai fatto fotografia. Al netto di questo, c’è da dire solo meno male che hanno inventato il bronzo, sennò chissà di che tipo di faccia dovevo parlare?
Personalmente questo modo di fare fotografia, l’ho sempre reputato un allenamento per un reportage vero e proprio. Al momento in cui occorre costruire un racconto, alcune cose possono essere irripetibili. Magari non un’evento come una festa paesana o il racconto di un mestiere, perché di solito le feste vengono ripetute ogni anno e i mestieri sono sempre lì, giorno dopo giorno. Ma irripetibile sono le piccole cose che poi di fatto compongono tutto il progetto. Un volto, l’espressione, la luce che cade da una finestra, un grazioso fiore o una massiccia macchina… Occorre sapersi muovere e immaginarsi le cose prima che possano accadere e farsi trovare pronti. Allenarsi fa bene, perché l’essere pronti non è una pratica così facile e scontata, né tantomeno da sottovalutare.
Altro aspetto è quello di trovare l’immagine fotografica bella e giusta. Sì, perché se è vero che tante cose si possono rifare, perché le feste si fanno tutti gli anni e i mestieri tutti i santi giorni, è anche vero che quello che si deve far venire su deve essere buono e possibilmente bello. Per questa ricerca, bisogna saper essere in grado di farsi trovare oltre che al momento giusto, anche nel posto giusto, con la giusta strumentazione… e quindi si ritorna li! Come si vede, sapersi muovere e saper osservare con la dovuta intensità e potenza per farsi trovare pronti nel modo e nel posto giusto, non è solo importante, ma direi che sia tutto. Dietro l’atto dello scatto, quella frazione di secondo c’è tutto: abitudini, esperienze, scelte giuste, esperienza fatta a seguito di errori, ma anche di belle sorprese!
Trovo che il reportage sia lo strumento più bello e potente della fotografia. Ma non sempre si può fare un reportage. Per cui, questa pratica di allenamento e di ricerca dell’immagine a effetto, reputo che sia giusto che trovi un adeguato risalto culturale e la propria identità, anche perché, la bellezza, per uscire allo scoperto, non si sa mai che strada possa prendere. Di fatto sono qui a scrivere su un tipo di fotografia nuova, ma assolutamente vecchia come la fotografia stessa. Personalmente penso che la street sia nuova perché è stata giustamente identificata come pratica artistica riconosciuta, anche se l’unica cosa di nuovo è un nome. Si tratta di un punto di vista strettamente personale e che sicuramente conta molto poco. Faccio una semplicissima affermazione e anche molto provocatoria. Il primo streeter della storia è stato Leonardo da Vinci, anche se non lo sapeva e se si va a vedere il cenacolo abbiamo a disposizione una delle fotografie di street più belle e interessanti che ci sia. Solo che è dipinta…
Filippo Secciani ©